FAENZA
Percorrendo la Via Emilia, a metà strada tra Bologna e Rimini e poco distante da Ravenna (32 Km) sorge Faenza. La città deve la sua fortuna alla sapiente lavorazione della ceramica artistica, una produzione attestata già intorno al primo secolo. Nel Rinascimento, l’importanza di Faenza divenne tale che il toponimo stesso della città prese il significato di ceramica (maiolica) in molte lingue, tra cui il francese faïence e l’inglese faience. Dai calanchi che caratterizzano il paesaggio intorno alla città, si ricavava l’argilla necessaria alla produzione dei manufatti, l’“azzurrigno terren di mare” come lo definì Leonardo da Vinci nel suo viaggio in Romagna tra l’agosto ed il dicembre 1502. Il grande impulso allo sviluppo artistico e culturale della città, si deve alla famiglia Manfredi, signori di Faenza dal 1313 fino agli inizi del 1500, i quali contribuirono alla diffusione delle “ceramiche azzurre” in tutta Europa. Testimoni del periodo di massimo splendore della città sono l’imponente Piazza del Popolo, su cui si affacciano il Palazzo del Podestà e il Palazzo Municipale, già dimora dei Manfredi, Piazza della Libertà con il Duomo di fine Quattrocento e la Fontana monumentale. Ancora oggi, 60 botteghe artigiane mantengono viva l’arte della ceramica, producendo oggetti a marchio certificato. Di grande interesse sono Il Museo Internazionale della Ceramica (MIC) ed il Museo/laboratorio Carlo Zauli, dedicato al ceramista faentino, attivo fino agli ‘70 del Novecento.
Faenza era ben nota a Dante Alighieri; nella Divina Commedia sono citati almeno 6 personaggi faentini, collocati soprattutto nell’Inferno e nel Purgatorio, signori colpevoli di aver tradito gli ideali per i quali la città si era battuta in passato. Nel nono cerchio dell’inferno, tra i “traditori della patria” troviamo Tebaldello Zambrasi di famiglia ghibellina, che nella notte del 13 novembre 1280, consegnò la sua città ai Guelfi, sottraendola ai ghibellini guidati da Guido da Montefeltro.
«Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia»
(Inf. XXXII, 122)
Altro personaggio è Maghinardo Pagani da Susinana, il “lïoncel dal nido bianco” (un leone in campo bianco) all’epoca signore di Faenza e di Imola. Dante lo colloca tra i consiglieri di frode, poiché si comportava da guelfo con i fiorentini e da ghibellino con i romagnoli per questioni di convenienza politica:
«Le città di Lamone e di Santerno
conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.»
(Inf. XXVII)
Quello a cui Dante riserva il trattamento peggiore è Frate Alberigo dei Manfredi, l’ultimo peccatore a parlare con il poeta, collocato perciò nella terza zona dell’ultimo cerchio dell’Inferno, quello dei traditori degli ospiti. Frate Alberigo è condannato al supplizio infernale in seguito al tradimento perpetrato nei confronti di suoi stessi consanguinei, durante una cena di riconciliazione, la famosa cena delle «Frutta del mal orto».
«Rispose adunque: “Io son frate Alberigo,
io son quel dalle frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo”.»
(Inf. XXXIII, vv. 118-120)
L’onore della città è riscattato nel XXI canto del Paradiso dove compare Pier Damiani, vescovo e teologo, vissuto e morto a Faenza, venerato come santo dalla Chiesa Cattolica.
Alcune tracce, inducono gli storici a pensare che Dante non solo conoscesse bene la città di Faenza ma che vi avesse anche soggiornato. Nel De vulgari eloquentia, egli descrive le differenze tra la lingua dei ravennati e quella dei faentini. È dunque, molto probabile che alla data di composizione del trattato (1303-1305) il poeta avesse avuto un’esperienza diretta del dialetto faentino.